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Se l'ascensore è chiuso non è un luogo aperto al pubblico 
Non sempre è reato l'atto osceno in ascensore
(Cassazione 10060/2001)


 

 
  L'ascensore di un edificio di per sé può essere definito come luogo aperto al pubblico ma, una volta chiuse le portiere in modo tale che nessun altro possa accedervi ed in modo che non si veda quello che succede all'interno, la commissione di atti osceni non può dare luogo al reato di atto osceni in luogo pubblico. Questo il principio stabilito dalla Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso contro una sentenza che aveva prosciolto un uomo, reo di avere molestato una minorenne sull'ascensore di un albergo, dal reato di atti osceni. La Suprema Corte rileva infatti che, se da un lato l'ascensore di un edificio può senz'altro definirsi come luogo aperto al pubblico, dall'altro lato, una volta che la portiera sia chiusa anche automaticamente e che l'ascesa ai piani superiori dell'edificio stesso sia iniziata, l'accesso è ormai precluso a coloro che trovino nella cabina; inoltre, quando questo è in servizio, se la cabina è costruita con materiale non trasparente e se non è dotata di aperture che consentano la visione al suo interno nella corsa all'esterno dell'edificio o, se interno, in corrispondenza dei singoli piani, anche la visibilità è esclusa e l'ascensore non può quindi considerarsi neppure un luogo esposto al pubblico. (1 giugno 2001)

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.10060/2001 - (Presidente A Malinconico; Relatore: S. F. Mannino )



IN FATTO E DIRITTO


Avverso la sentenza del Tribunale di Macerata 29 settembre 1999 n. 138 - con la quale R. D. è stato prosciolto dal reato in epigrafe, limitatamente agli atti di libidine compiuti all'interno dello studio dentistico del R. nel 1983 per prescrizione ed a quelli compiuti in Macerata fino al 1994 e in un albergo di Madonna di Campiglio nel 1984 per difetto di querela hanno proposto ricorso immediato per cassazione il P.M. presso il Tribunale di Macerata e la parte civile R. N. (rinunciando ai sensi dell'art.569 c.p.p. all'appello proposto chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi: 

il Pubblico Ministero:

l. violazione ed erronea applicazione dell' art. 542 c. 3 n. 2 c. p. ,perché sono stati ritenuti perseguibili d'ufficio in quanto connessi con il reato di atti osceni solo gli atti di libidine violenti commessi nello stesso contesto temporale di quelli osceni e, quindi, solo quelli commessi nello studio dentistico dell'imputato nel 1983 e in un albergo di Madonna di Campiglio nel 1984 con proscioglimento per mancanza di querela in ordine a tutti gli altri, compiuti precedentemente e successivamente fino al 1994 e unificati dal vincolo della continuazione;

2. violazione ed,erronea applicazione dell' art.527 c.p. [1]e manifesta illogicità della motivazione perché il Tribunale ha ritenuto che per la commissione del reato di atti osceni non costituisce luogo aperto al pubblico la ,cabina dell'ascensore (di un albergo) privo di aperture o di vetrate, nel tempo in cui, si sposta da un piano all'altro;

3. violazione ed erronea applicazione dell'art. 542 c.3 n. 2., c.p.. in quanto la connessione con il reato di atti osceni rendeva procedibili d'ufficio tutti i reati di atti di libidine violenti commessi dal 1977 al 1994 dall'imputato;

4. violazione ed erronea applicazione dell'art.527 c.p. e manifesta illogicità della motivazione in merito agli atti osceni commessi nell'ascensore dell'albergo di Madonna di Campiglio in quanto non si trattava di luogo aperto al pubblico;

5. violazione dell'art.531 c.p.p. in relazione agli artt.81 cpv., 521 e 529 c.p. perché il Tribunale ha escluso in ordine agli atti di libidine violenti l'aggravante dell'età minore dei quattordici anni ed ha omesso l'esame di quella dell'affidamento per ragioni di istruzione.

L'impugnazione è infondata.

L'art.542 c.3 n.2 c.p., riprodotto nel vigente art.609 septies c.4 n.4 c.p., stabiliva la procedibilità d'ufficio per i delitti contro la libertà sessuale e per quello di corruzione di minorenni se il fatto era connesso con un altro delitto per cui si doveva procedere d'ufficio, come quello di ratto a fini di libidine di cui all'art.527 c.p..

L'effetto derogatorio della procedibilità a querela dipende dalla circostanza che, a causa della connessione col delitto procedibile d'ufficio, il fatto va comunque incontro a quella notorietà (strepitus fori) che l'attribuzione del diritto di querela consente alla parte offesa dì evitare con la conseguenza che l'estensione della procedibilità d'ufficio ai reati di natura sessuale si attua per il solo fatto che si sia proceduto d'ufficio all'accertamento di un reato connesso e non viene meno neppure quando per questo sia intervenuta successivamente l'assoluzione o l'estinzione per qualsiasi causa, salva solamente l'ipotesi dell'insussistenza ab origine del fatto nella sua oggettiva materialità (v., per tutte, Cass., Sez.III, 11 novembre 1999 n.1417/00, P.G. in proc. Granato;, Id., 15 marzo 1994 n.3114, ric. Tabib; Id. 22 marzo 1991 n.., 3267, ric. Tiritiello; Id., 13 dicembre 1986 n.14043, ric. Ghelardini; -Id., 15 aprile 1982 n.3871, ric. Franchi; Id., 27 ottobre 1984;n.9264. ric. Benzi). 

L'effetto di deroga si produce, dunque, in ogni caso in cui l'indagine concernente il reato perseguito d'ufficio comporti la pubblicità di quello perseguibile a querela e, quindi, certamente nel caso della connessione teleologica o materiale, ma anche in qualsiasi altra ipotesi di connessione idonea a determinare comunque il venir meno dell'esigenza di riservatezza che è alla base del l'attribuzione del diritto di querela alla parte offesa da questo tipo di reato (Cass., Sez.III, 12 giugno 1984 n. 5521 Marchese; Id., 24 febbraio 1984 n.1690, Id. 20 giugno 2000 n. 2510, ric. Mancini, ; in senso diverso, ma non contrastante perché non limitativo, in quanto riferito all'ipotesi di connessione maggiormente idonea a determinare l'effetto, v. Cass., Sez.III, 24 febbraio 1984 n.1690, ric. Mancino; Id., 23 ottobre 1984 n.9092, ric. Belarducci; Id., 8 agosto 1996 n.3014, ric. Somma).

La sentenza si è attenuta ai principi suesposti, sia pur uniformandosi all'orientamento giurisprudenziale più restrittivo, che, partendo dalla comune premessa per cui la "ratio" di detta disposizione deve individuarsi nel venir meno dei motivi, posti a base della perseguibilità a querela di questi reati, ed in particolare dell'esigenza della riservatezza, in quanto l'indagine investigativa sul delitto perseguibile di ufficio comporta necessariamente l'accertamento degli al altri e, quindi, la diffusione della notizia, perviene alla conclusione che la connessione, cui si riferisce il terzo comma dell 'art. 542 cod. pen. in relazione alla particolare l'ipotesi di perseguibilità di ufficio dei reati ivi indicati, riportata anche nell 'art. 609 "septies" comma terzo n. 4 della legge n. 66 del 1996, è solo quella materiale e non anche processuale, seppure considerata nel significato più riduttivo previsto dall'art. 12 cod. proc. pen. 1988 rispetto a quello dell'art. 45 cod. proc. pen. 1930, e quindi, che i in base a detta "ratio" l 'estensione della perseguibilità di ufficio può ravvisarsi o perchè sono stati commessi nello stesso arco temporale (quando l'uno e l'altro sono stati effettuati con la stessa azione, od omissione oppure ancora quando uno sia stato posto in essere nell'atto di consumarne un altro o in occasione di questo) ovvero per eseguire ed occultare un altro ovvero per conseguire l'impunibilità di un diverso delitto Cass., Sez. III, 8 agosto 1996 n.3014, ric. Somma, cit.).

Seguendo quest'orientamento, il Tribunale ha ritenuto coerentemente perseguibili d'ufficio in quanto connessi con il reato di atti osceni solo gli atti di libidine violenti commessi nello stesso contesto temporale di quelli osceni e, quindi, solo quelli commessi nello studio dentistico dell'imputato nel 1983 e in un albergo di Madonna di Campiglio nel 1984, con proscioglimento per mancanza di querela in ordine a tutti gli altri, compiuti precedentemente e successivamente fino al 1994, benché unificati dal vincolo della continuazione.

Pertanto il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato. Lo stesso deve dirsi riguardo al secondo ed al terzo.

Il concetto di luogo aperto al pubblico si definisce con riferimento all'accessibilità di un numero indeterminato di persone, sia pur limitato o individuato in ragione dell'appartenenza a determinate categorie di soggetti che per qualsiasi motivo hanno la possibilità di accedervi (Cass., Sez.III, 11 novembre 1999 n.3771, P.G. in proc. Granato; Sez.IV, 10 ottobre 1989 n.13316, ric.Godizzi; Sez.III, 20 febbraio 1986 n.1567, ric.Salvo; Sez.III, 20 ottobre 1983 n.8616, ric.Scopel; Sez.V, 6 ottobre 1972 n.769. ric. Valentini).

Per questo aspetto l'ascensore di un edificio può senz'altro definirsi come luogo aperto al pubblico, nel consentito liberamente e indiscriminatamente coloro che intendono servirsene per farsi piani dell'edificio.

Tuttavia, una volta che la portiera sia chiusa anche automaticamente e che l'ascesa ai piani superiori dell'edificio stesso sia iniziata, l'accesso è ormai precluso a coloro che trovino nella cabina. 

Peraltro, quando questo è in servizio, se la cabina è costruita con materiale non trasparente e se non è dotata di aperture che consentano la visione al suo interno nella corsa all'esterno dell'edificio o, se interno, in corrispondenza dei singoli piani, anche la visibilità è esclusa e l'ascensore non può quindi considerarsi neppure un luogo esposto al pubblico.

Sul punto la decisione del Tribunale appare, quindi, ineccepibile e dimostra l'infondatezza del quarto motivo.

Il quinto motivo - che come i due precedenti è stato proposto col ricorso della parte civile - benché fondato è improcedibile perché sul punto non v'è ricorso del P.M..

Infatti, la censura riguardante la violazione di legge per omesso esame di un'aggravante (nella specie, l'affidamento del minore per ragioni di istruzione all'autore del reato di atti di libidine violenti) non può essere dedotta con ricorso per cassazione dalla parte civile, non rientrando il vizio della sentenza di condanna tra i capi che riguardano gli interessi civili, per la difesa dei quali unicamente a quest'ultima è concesso dall'art.576 c.p.p. il potere d'impugnazione, sicché, in difetto di ricorso del P.M., quello della parte privata è sul punto inammissibile.


PER QUESTI MOTIVI

La Corte


Rigetta i ricorsi e condanna la ricorrente parte civile al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 20 aprile 2001.

 

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